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La mostra di Michele

Marco Tanzi

Da quanti anni dico a Michele che bisogna fare la ‘sua’ mostra? Credo almeno una decina, ormai: da quando ho visto come si è affinata la sua manualità – ma di questo non c’era bisogno: Michele con le mani sa fare tutto, da sempre – ma soprattutto da quando la sua poetica, le sue ricerche sui materiali e sulle forme, prima aperte in un ventaglio forse un po’ troppo ampio e dispersivo di sperimentazioni, hanno preso una direzione più coerente, intima e sensibile; ed è cresciuto in pari misura il senso peculiare della qualità.            “è bravo Michele”, è il mantra (in realtà un tormentone) che da qualche anno ormai ripetiamo in tanti – io e suo fratello Paolo in particolare, ma anche altri amici fidati – per prenderlo in giro alla nostra maniera: ma arrivati a questo punto non scherziamo più tanto; Michele è bravo davvero. E sa usare tutto: ferro, legno, plastica, colori, tele, filo di ferro, luce elettrica, vetro… con una serie di doti particolari e solo sue: sa piegare i diversi materiali utilizzati di volta in volta alla sua volontà, alla sua idea, a quello che ha, ben preciso, nella sua mente. Con la fabbrilità, l’attenzione, la coscienza e il rispetto dei vari elementi di cui si avvale sapendo assecondare la loro natura; che è sì il portato della sua personale formazione a diretto contatto con i materiali, dei quali conosce ogni segreto, e dei lunghi anni di lavoro sempre accompagnati da una naturale propensione – alla Mister Wolf – per risolvere problemi.

Un angolo della foresta

Michele è una spugna, vede e assorbe tutto: non dimentica. Ma allo stesso tempo non copia: anima le sue opere di un respiro che è solo suo, di sensazioni che solo lui sa cogliere nell’atmosfera e infondere nell’opera. Quella che si chiama, in una parola, sensibilità. Ogni sua composizione, da quelle più minuscole a quelle di dimensioni decisamente fuori scala, trasuda sensibilità e sentimento, oltre che di una sua peculiare monumentalità di intenti: in questo sa essere maestro, nel trasformare ogni materia – anche la più ostica e la meno duttile – in forme sensibili, accostanti, con una vena di tenerezza sottilissima, per chi la sa cogliere, e spesso si incrina verso la commozione. Sta qui, poi, la genialità, a mio avviso: nel saper indirizzare lo spettatore verso una propria soggettiva lettura dell’opera, senza avere la presunzione di suggerire un indirizzo obbligato da seguire, una verità, unica, incontrovertibile e immutabile. Ognuno infatti può vedere in queste forme, negli agglomerati di materia, luce e colore, nei concetti spaziali raffinati e ricchi di sottigliezze, in questi boschi di Biancaneve, nella plastica combusta, nei ferri sbalzati e pieni di concrezioni gibbose, esattamente ciò che ci vuole vedere, senza alcuna costrizione.

Moby Dick, 2010, ferro, corda

È bello poter trovare questa leggerezza, questa totale assenza di presunzione in un’attività in cui ognuno si sente in dovere di spiegarti cosa ha fatto e perché l’ha fatto: banalmente, artificiosamente, ripetendo a pappagallo, blablabla, cose che ho già sentito quarant’anni fa e mi sembravano già irrimediabilmente datate, solo orecchiate ma piene di una supponenza del tutto priva di ragione, di senso, da pseudo-sciamano di provincia che vorrebbe essere maudit e risulta solo patetico. Siamo a Cremona, non a Montparnasse o alla Factory, ma nemmeno al Giamaica o in Piazza del Popolo negli anni Cinquanta: qualcuno, lo noto da oltre quarant’anni in questa città, sembra dimenticarlo e parte per una tangente tutta sua, spesso grottesca nella sua ignoranza popolata di concetti imparaticci. Nell’atteggiamento di Michele invece c’è un rispetto molto nobile per il fruitore; un’educazione e una discrezione che troppo spesso non sfiorano nemmeno da lontano i cosiddetti artisti: sa quello che fa, vuole capire cosa ne pensano gli altri, è contento se le sue cose piacciono, ma solo nella misura in cui queste osservazioni lo fanno andare avanti, gli fanno salire un altro gradino nella conoscenza; con l’umiltà di chi sa ascoltare veramente e ci ragiona su il giusto. L’attenzione, quella vera, è una dote che non tutti possiedono.

Cascata d’acqua, 2015, plastica colorata blu
Angelo custode, 2013, olio su tavola

Ora devo assumermi le mie responsabilità: queste cose Michele le faceva solo per sé, in laboratorio o in casa – la notte, i giorni di festa – e le vedevano solo gli amici. Al ‘grande pubblico’ erano riservate solo le briciole o i divertissements ‘funzionali’: gli allestimenti e le strabilianti cornici delle nostre mostre di settembre; tutte cose dalle quali tuttavia si intuiva benissimo quanto questo lavoro e queste invenzioni fossero apprezzate. Essendo un martello pneumatico – o, più in sintonia con la città, una ‘fetta’ –, da anni cercavo di spingerlo verso la ‘sua’ mostra, o meglio, ‘l’evento’, perché se queste opere meritano (strameritano) di essere esposte, Michele merita ‘l’evento’, quello che a Cremona non si fa o non si sa bene cos’è: quello che va tributato a chi, senza troppe fisime, ha saputo elaborare un suo discorso alto. E nella mia fantasia di attempato e un po’ patetico eversore in disarmo, ma ancora in vena di performance, pensavo a una sorta di rave party in un capannone vuoto lungo la Paullese o le golene di Po, con musica techno a palla e altre amenità generazionali. Grazie all’aiuto di altri amici abbiamo invece raggiunto un più che onorevole – e davvero suggestivo – compromesso per la location : un capannone in pieno centro, a due passi dal Duomo e dal nostro locale preferito, già sede di una storica tipografia e ancora impregnato dagli odori e dagli umori di un lavoro vero: ampi spazi, muri sbrecciati, grandi vetrate su vecchi cortili in cotto con piantine e gatti; insomma, una meraviglia. Un altro amico per le luci, ché non sono opere facili da illuminare, e…si parte.

Tamburo di latta, 2010, smalto su ferro

In conclusione non voglio, deliberatamente, fornire nomi o fonti di ispirazione, che pure non sarebbero scarsi; o scrivere la paginetta dotta sul perché e sul percome, sugli intrecci di arte e vita, sulle cose viste e amate e su quelle invece detestate: in poche parole, non voglio fare “la spiega”. I padri nobili alle spalle di Michele li scoprirà lo spettatore, se vorrà, di volta in volta, opera dopo opera, con la propria cultura e la propria sensibilità: spero soltanto accompagnato dallo stupore e da quella sensazione unica e magica che è la meraviglia.

Con Michele Mascarini l’arte contemporanea incontra la città

Eugenio Bettinelli – Mondo Padano

Via Gerardo Patecchio (poeta ducentesco cremonese autore dello Splanamento de li Proverbii de Salamone), al civico n. 19, là dove c’era una vecchia tipografia che ben conoscevo, di cui ricordo ancora i colori, i suoni, gli umori. È questo l’indirizzo di una inusuale, e perciò preziosa, performance espositiva delle opere di Michele Mascarini, la sua prima mostra personale. Il luogo dice già tanto: siamo nei vicoli della Cremona più dimenticata a due passi dalla chiesa maggiore e dai punti di ritrovo del consumo del tempo e delle cose. In quelle parti di città in cui ancora, fortunatamente lontano dai traffici e da una malvissuta modernità, si assapora una storia che vorrebbe essere ancora viva, in cui si percepisce che il divenire urbano non è un saputo percorso lineare nel tempo, ma un accumulo a strati, la compresenza di tanti piccoli o grandi segni: di un ciottolato che finisce in un orrido asfalto e degli odori di cucine più o meno private. Una strada che è un po’ un retro, una sorta di un lato b di un vinile dove però spesso si trova incisa la musica più bella, un luogo dove non c’è nulla se non l’aspettativa di una sorpresa. proprio qui Cremona si riscopre città d’arte in uno spazio riscoperto non per una banale cartolina del “vecchio”, ma per ospitare una manifestazione di arte contemporanea in ambienti che ancora parlano di lavoro, minuto, preciso quale è quello della stampa.

Il cortile dell’ex-tipografia

Progettare l’allestimento delle proprio opere (quando non è megalomane presunzione) è compito complesso, per questo poco praticato dagli artisti “maggiori”. Già è difficile, e proprio pochi lo sanno fare, progettare un allestimento, ma l’essere curatore e costruttore della propria immagine pubblica nell’esporre i beni personali più intimi è una scelta che mette in imbarazzo. Mascarini (il Michele) ci aveva già abituato a queste capacità nella galleria di famiglia, ma qui ci sorprende ancora una volta: perché, pur dotato di straordinaria manualità, qui non fa quasi nulla, e affida alle crudezze delle stanze per quello che sono oggi il compito di incorniciare nel tempo il suo lavoro. e, strato su strato, vecchi intonaci, serramenti mascherati di passata quotidianità, soffitti poveri liberati parzialmente di più nobili plafoni, si intrecciano con dipinti, sculture, oggetti dell’occhio e dell’anima. E tutti questi elementi, dell’espressività dell’artista e di brandelli di una edilizia umile, si parlano e si completano quasi a rendere difficile capire dove finisca la materia casa e dove comincia la materia arte: e partecipano di una lingua comune, forse il protodialetto del Patecchio, riascoltato nel duemila.

L’arte contemporanea spesso pretende colte riflessioni o propone dolorose straniazioni. Le opere di Mascarini portano invece in un mondo di tranquillità, di serene emozioni, di percezione di un ambiente naturale dove la drammaticità delle situazioni è “normale”, è quotidianità ricca in tutti i suoi dettagli, nelle minuzie di una trasformazione della materia, nelle infinite variazioni del rapporto con la luce, in boschi e cortili dove ti aspetti di trovare un amico elfo di lamiera o di plastica rianimate dalla poesia.

Rovine, 2013, olio su tela
Corteccia, 2008, ferro

[…] Sorpresa e serenità dunque sono i sentimenti che più facilmente accompagnano la visita a questa mostra, visita da ripetere più volte, in orari diversi perché dai finestroni la luce delle diverse ore del giorno sottolinei in modo diverso materie e cromie, perché penetri tra le opere più grandi o dia significato a impercettibili dettagli delle trasparenze e delle concrezioni, e magari quando c’è poca gente, per liberamente costruire il proprio percorso personale in questa selva incantata di più di sessanta opere.

Finalmente, una prima, questa, che emoziona come di rado accade, un’esperienza di oggetti che sta bene vivere qui, ma che mi ricorda il sapore di alcune esposizioni della Triennale di Milano, quando non era tanto interessante definire se quello che era esposto fosse arte, design, o diossacchecosa: perché c’è un mondo, fuori da questa città che evita di guardarsi dentro con innovativa consapevolezza, fuori da questa città dove il progetto a volte o è mestiere o è status sociale, o dove proprio non è considerato, c’è un mondo che di queste qualità è alla continua ricerca, e che sa riconoscerle e farle proprie, e identificarle come valore.

Non conosco bene Michele, per sua timidezza e per mia scarsa frequentazione; tuttavia credo di sapere che non deciderà mai cosa vorrà fare da grande, m in qualche modo grande lo è già, per chi ha occhi e cuore per riconoscere la vita nel lavoro duro delle sue mani.

Licheni, 2014, olio su tela

Piccolo glossario di Storia Naturale

Jacopo Narros

ACQUA: s. f. tela composta da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno tessuta da alcune specie di ragni col secreto di ghiandole addominali (“ghiandole dell’acqua”). Serve per catturare gli oggetti leggeri che vi si appoggiano su: piume, foglie, pezzettini di carta. Molto spesso i ragni devono ricominciare da capo la loro rete d’acqua: l’acqua infatti ha la tendenza a scorrere e precipitare (“fiumi”, “cascate”) o a evaporare.

ALBERO: s. m. mammifero perenne con coda orizzontale muscolosa e arti anteriori trasformati in pinne. Il complesso di rami e foglie dell’albero, detto “testa”, ha narici dorsali, bocca enorme priva di denti, sostituiti da una frangia di appendici dette “frutti” (“alberi da frutta”).

BALENA: s. f. la balena è la pianta più grande dell’ordine dei cetacei, si nutre tramite i “fanoni” di piccole pigne e cresce, sporadicamente, nei grandi oceani. Le balene, cacciate e tagliate per la loro corteccia, comunicano tra di loro attraverso lugubri fischi prodotti nelle radici.

FORESTA: s. f. insieme dei membri articolati e mobili ad alto fusto con cui terminano le mani (“dita”). Le dita della foresta (vedi anche albero) servono per la presa e sono la sede specifica del tatto (“tatto arboricolo”). Le dita possono produrre ombre con il loro fogliame, oppure incendiarsi; ospitano, sotto le unghie, varie specie di animali che quando muoiono sparpagliano in terra le loro ossa.

OSSO: s. m. ciascuno degli organi duri costituiti da una cascata di acqua. Le ossa formano lo “scheletro”, complesso di rivoli strutturato su di una impalcatura di piccoli pesci.

PESCE: s. m. animale vertebrato appartenente alla classe dei semi. Nelle piante angiosperme il pesce è chiuso nel frutto, e le pinne, la testa e la coda sono schiacciate. Nelle piante gimnosperme il pesce è ricoperto da squame che può perdere in giro quando un improvviso colpo di vento lo fa nuotare per l’aria.

TERRA: s. f. miscela gassosa che in grandi masse appare azzurra. La terra si trova nei boschi (“atmosfera”) o nei campi (“vento”, “nebbia”), dove è soffiata per coltivare.

Bosco, 2017, legno, policarbonato, polistirene