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Dimenticato per secoli, il surreale ed enigmatico Bosco Sacro di Bomarzo, era ormai diventato terra da pascolo quando venne riscoperto
Una scoperta che ha il sapore di ritrovamento, dello stupore che si prova nell’osservare per la prima volta un luogo magico tornare alla luce. Quanto avranno brillato gli occhi dei coniugi Bettini quando, nel 1954, hanno posato lo sguardo sul fascino dei mostri di Bomarzo?

Ricoperto da una fitta coltre di alberi e foglie, il Parco dei Mostri di Bomarzo, torna alla luce del sole e tutt’oggi continua a splendere di un fascino del tutto particolare.

Tre ettari di fantasia.

Si danza tra la fiaba, il grottesco e l’inquietudine di due Sfingi, un Proteo, due giganti che lottano, un ninfeo, Nettuno, Pegaso, una balena, una tartaruga, un elefante, un orco dalla bocca spalancata ed una casa pendente.
Bomarzo è circondato da un alone di mistero, tra sculture fiabesche e spaventose, è un luogo incantato ricco di contraddizioni e meraviglie.
La sua storia è legata al suo costruttore, Vicino Orsini ed è romantica, incerta, travolgente. Durante il periodo tardo rinascimentale, i giardini delle ville erano emblema di ricchezza, buongusto e cultura: l’armonia dei colori, delle simmetrie e della regolarità si intrecciavano a rimandi alla classicità, ai poemi cavallereschi ed alla cristianità.

Villa Lante a Bagnaia

 

Ogni centimetro dei parchi Cinquecenteschi è permeato di significati ed euritmia. Ma non il Parco dei Mostri di Bomarzo.
È diverso. Rinuncia all’addomesticamento geometrico del paesaggio e lo adorna con elementi anticlassici, che appartengono al bizzarro, al contorto, al grottesco ed al melanconico.
Ci si perde nel Sacro Bosco di Bomarzo, perché il percorso non è univoco, è libero e ramingo. Finché lo stupore non prende il sopravvento e non ci si ferma davanti ad una statua che cattura la nostra curiosità.
Un luogo incantato in cui perdersi: questo è ciò che voleva Vicino Orsini, è ciò che aveva pensato e progettato.

Quando nasce, nel 1523 a Roma, Pier Francesco II non sa ancora che sarà chiamato e ricordato come Vicino. Appartiene ad una nobile famiglia italiana e, per questo, viene educato alla letteratura, all’arte, ma anche alla guerra.
Eppure, egli non è un appassionato d’armi, anzi, le rifugge. Preferisce la tranquillità di una vita riservata, poco mondana, religioso ma anche tanto superstizioso da divenire un conoscitore delle stelle e del loro significato. Vicino era un ironico, amante della vita e delle sfaccettature che dona all’animo umano.
E come era il suo di animo? Sicuramente tormentato da tanti dolori personali, ma anche un personaggio curioso ed appassionato che volle circondarsi di un mondo incantato e spaventoso che esorcizzasse e, allo stesso tempo, incarnasse le sue eloquenti paure.

Nel 1542, dopo un’aspra battaglia legale con il fratello minore, entra in possesso del palazzo di famiglia, a Bomarzo, nel Lazio nord-occidentale. Grazie all’amicizia con Alessandro Farnese, poté compiere diversi viaggi in Italia ed Europa, specialmente a Venezia, dove conobbe Giulia Farnese, sua futura moglie.
Certamente è stato un matrimonio politico, ma si rivelerà un’unione felice, tanto che inizieranno a pensare insieme al parco dei mostri, condividendone i principi, le linee guida e lo stile.
Prima di partire per la guerra tra gli Asburgo e la Francia, Vicino fece incidere su un obelisco la frase “Sol per sfogare il cuore”, una citazione di Vittoria Colonna, che esprimeva tutto l’amore per la moglie ed il dolore per il distacco da essa. È questo il primo nucleo, la prima incisione, che darà vita al Bosco Sacro di Bomarzo

Da questo primo episodio si capisce lo scopo del Bosco Sacro di Bomarzo, un luogo incantato e salvifico in cui immergersi, ed in cui dar forma ai propri sentimenti di amore, tristezza, sgomento, curiosità e instabilità.

 

In questo scenario è situata la costruzione della Casa Pendente, eretta nel 1555 per volontà di Giulia Farnese. Il marito era prigioniero di guerra nelle Fiandre e, Giulia, scelse di dar forma al suo stato d’animo: di incertezza, di inquietudine e carica di responsabilità per essere l’unica donna tra i lupi a reggere un feudo.
Pericolosamente inclinata, la casa poggia su una grande roccia; internamente, invece, vi è una scala che pende nel senso contrario delle mura. Questo stratagemma crea una sensazione di vertigine e di disagio sorprendentemente curiosa.
È un monumento incredibile, che destabilizza sia alla vista che al passaggio.

Vicino Orsini e la moglie si differenziano da tutti gli altri Signori dell’epoca: sono interessati ai nuovi libri, alle stravaganze, a luoghi esotici e lontani, e sono proprio queste passioni che, unite alla letteratura cavalleresca, che danno vita al Bosco Sacro di Bomarzo.
Credo che questo magnifico parco possa suddividersi in due nuclei ben distinti, a seconda del tema narrato.
Il primo, progettato e realizzato a partire dal 1561, insegue il ricordo dell’amatissima moglie, morta prematuramente nel 1560. Un evento così sconvolgente funge da detonatore ed anima un’idea che Vicino già covava da tempo.
Costruisce così il Tempietto, la cui cupola ricorda quella fiorentina di Santa Maria del Fiore, e lo decora con riferimenti astrologici.

 

In realtà, l’aspetto più romantico del Tempietto era rappresentato da alcuni riferimenti all’Hypnerotomachia Poliphili, un romanzo allegorico che narra la storia d’amore, sofferta e rincorsa dei due protagonisti. Vicino vi riconosce se stesso, avendo perduto l’amata Giulia, ora ne insegue il ricordo e le dedica il parco con un’incisione ormai scomparsa, “Alla felice memoria dell’Illustriss. Sig. Giulia Farnese”.

Il percorso letterario continua con una Ninfa dormiente, appisolata su di un masso e riparata da una coltre di muschio, una fontana dalla forma allungata con delfini gioiosi e, da una nicchia scavata nella roccia, compare una donna bellissima, Venere.
Non è forse un paradiso di armonia e delicatezza?
Un paradiso che viene spezzato da un sentimento di inquietudine e desolazione: tutto cambia.

Ora sono le invenzioni di Ariosto, Pulci e Tasso a fondersi con mostri e creature bizzarre. Così una gigantesca Tartaruga passeggia lentamente, tenendo in equilibrio sul duro guscio di basalto una Nike.

 

E, poco più in là, una Balena con le fauci spalancate emerge dal terreno. L’acqua ribolle e si muove tumultuosa con schizzi e giochi d’acqua, ora perduti, che lo stesso Orsini aveva studiato.
Sono due giganteschi esseri, presi a prestito dall’Orlando Furioso, che fungono da monito per il visitatore di procedere con lentezza davanti ai pericoli.

 

Qualche centinaio di metri più avanti la terra trema, perché un Elefante turrito stritola con forza e fragore un soldato, ormai esanime.

 

Enorme ed imponente, possiamo leggere la presenza del pachiderma in due modi distinti. Può rappresentare l’Africa ed il dominio dei mori, in ricordo dei versi della Gerusalemme Liberata, ma può anche ricordare un episodio molto cupo. Nel 1571, Orazio, uno dei figli di Vicino perse la vita durante la battaglia di Lepanto, la statua quindi potrebbe fungere da monumento funebre.
Sono le opere, uniche, che si susseguono nel parco a creare un’atmosfera di meraviglia, stupore e paura.

Proseguendo nel percorso si sente un lamento malvagio ed appare una scritta “Lasciate ogni pensiero voi ch’entrate”, un ricordo dantesco per presentare colui che sta per palesarsi.
È Plutone, il guardiano infernale. Di lui si vede solo il volto, ha gli occhi sgranati ed i denti ben in mostra. Pronto ad inghiottire chiunque scambi le sue fauci per un antro, attende pazientemente con l’acquolina in bocca.
Eppure, qualcosa di inusuale succede a chi osa entrare in quella grotta dentata. Non viene divorato, né trova scheletri dei precedenti malcapitati, bensì frescura ed un tavolino da pic-nic. Perché tutto è il contrario di ciò che appare, perché quel che spaventa, potrebbe essere, in realtà, una via di fuga dal caos e dalle brutture della vita.

Una follia? Ebbene sì, eppure è una follia incantata.

Quella che Vicino Orsini crea è una selva fiabesca e immaginifica, in cui la meraviglia e l’inquietudine si fondono. Ognuno di noi vi troverà delle opere d’arte o degli inganni, a seconda di quello che vorrà, come avverte la Sfinge, all’ingresso del parco.

Tu ch’entri qua pon mente / parte a parte / et dimmi poi se tante /meraviglie / sien fatte per inganno / o pur arte.

 


Sofia Pettorelli
Laureatasi da poco in Gestione dei Beni Culturali, lavora attualmente in un ufficio stampa.
La passione per la scrittura, il racconto e l’arte la portano alla collaborazione con TheArcult.