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   Le origini di Medhat Shafik sono imprescindibili qualora si voglia parlare del suo lavoro: nasce nel 1956 in Egitto, ma a vent’anni è già a Milano dove frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera. Egli vive, studia e lavora in Italia, a contatto con l’arte e gli artisti degli anni Settanta, di cui accoglie le nuove istanze: il concettuale e l’Arte povera vengono fusi al ricordo della sua terra. Nella pittura di Shafik si riscontra una forte componente gestuale ma, a differenza dei suoi contemporanei, in lui il gesto è sempre pacato, composto, quasi fosse un rituale da cerimonia, con i suoi tempi e i suoi ritmi.

   Shafik ama la materia, la mette in luce, la utilizza per la sua valenza palpabile, che spesso evoca una cultura altra, lontana, ma filtrata attraverso le ricerche dell’Informale europeo ed americano. Nei suoi lavori non troviamo mai segni di superficiale etnicità o banale esotismo: egli utilizza la propria cultura in modo originale e creativo, penetrando con essa la tela, di cui è sempre accentuato il valore tattile. Tutti gli inclusi materici che utilizza, dal sacco, alla garza, alla corda, prendono parte al processo di trasformazione dell’opera e l’atto creativo diventa così spirituale e meditativo. I materiali impiegati dall’artista devono sempre trasmettere l’idea di essere primordiali, in quanto solo questi permettono di arrivare a una comunicazione lirica che sia allo stesso tempo anche vigorosa ed efficace. Per questo motivo egli utilizza sempre materiali naturali: tessuti e lavorati artigianali oppure oggetti e frammenti prelevati direttamente dal mondo che lo circonda.

   La cultura egiziana è il punto di partenza tramite il quale l’artista incontra la cultura occidentale contemporanea e giunge alla creazione di un linguaggio inedito e originale, unico nel suo genere. Shafik non utilizza letteralmente la propria lingua, non possiamo leggere geroglifici nelle sue opere e nemmeno tradurre le lettere arabe appena accennate. Oltretutto egli in Egitto non era legato alla cultura islamica, ma a quella copta della popolazione egiziana autoctona, dunque nei suoi dipinti, invece che tradurre dall’arabo, bisognerebbe eventualmente focalizzarsi sulle radici del Cristianesimo.
Shafik utilizza diversi linguaggi nelle sue opere, che vanno sempre lette in questo senso, come stratificazione di diverse culture e scritture. Per l’artista dipingere è scrivere e l’alfabeto utilizzato può essere quello islamico, così come l’egiziano, il cuneiforme, o quello degli ideogrammi giapponesi o cinesi, senza dimenticare la tradizione occidentale.
Nella ricerca di un legame fra pittura e scrittura, l’artista incontra i graffiti, arte di strada dal sapore primitivo, riesumati, a partire dal secondo dopoguerra, dalla cultura dell’Informale.

Graffiti 3, 1989. Tempera, olio, pastello e inclusi materici su tela, 118,5×79 cm. CSAC, Parma.

   In Graffiti 3 ritroviamo la forza del segno e della materia spessa, la tela diventa quasi un muro sul quale incidere la propria impronta. Shafik in un’intervista afferma di guardare i muri delle strade, di osservarne le stratificazioni: ama vedere i muri che mostrino l’intonaco, i mattoni e le pietre sottostanti. Lo spazio del dipinto in questione vorrebbe essere diviso in modo geometrico, ma la materia non lo permette, interviene con la sua forza e copre, cancella. Ricorda Dubuffet, nelle prime opere degli anni Quaranta, dove l’intervento dell’uomo e la materia, talvolta sottoforma di catrame, si congiungono. I Graffiti di Shafik vanno proprio letti attraverso la storia dell’Informale europeo. Un altro confronto interessante è infatti quello con Jean Fautrier, il quale nella materia, elemento fondamentale, memoria del vissuto, ingloba la forma, che rimane importante, come nella serie degli Otages. Nella parte inferiore del dipinto, i segni veloci, fanno invece pensare all’Abstract Expressionism e a quel Pollock che dipingeva le opere in orizzontale. Il dipinto è dunque molto articolato, ricco di riferimenti, soprattutto all’arte del secondo dopoguerra, ma con l’aggiunta dell’impronta inconfondibile di Medhat Shafik.
Nelle opere di Shafik, già a partire dagli anni Ottanta, si percepiscono alcune suggestioni derivanti dai maggiori artisti europei del Novecento. In Cavallo in fuga del 1984 si riconoscono diversi riferimenti: il più immediato ci porta alla ricerca di Vasilij Kandinskij e Franz Marc con il loro Blauer Reiter, mentre i più affini a livello materico sono Alberto Burri, con i suoi sacchi stropicciati, e Piero Manzoni con i suoi Achrome fatti di grinze, rigonfiamenti e scanalature, create nella carta così come nel cotone. In ogni caso, anche quando si trovano rapporti fra Shafik e altri artisti, non bisogna dimenticare che, quelli su cui si basa, sono modelli lontani, evocati più o meno consciamente in corso d’opera.

Cavallo in fuga, 1984. Tempera, acrilico e stoffa su compensato, 144×125,5 cm. CSAC, Parma.

   I quadri di Shafik sono sempre dei racconti, sono fatti di ricordi, evocano oggetti ed episodi passati, la sua lingua è fatta innanzitutto di memoria e di mitologia, tutti elementi che lo rendono un grandissimo narratore, sempre fedele a se stesso e alla propria personalità.
Negli anni Novanta, a differenza della maggior parte degli artisti a lui contemporanei, intensifica il rapporto con l’Informale e l’Espressionismo astratto, rielaborandone i linguaggi. In Luoghi di reperti del 1994 l’artista applica materia alla tela: non è più solo un dipinto, ma un’opera con una propria fisicità. Shafik raccoglie gli oggetti e, tramite questi, ci racconta una storia sulla tela: sono come lettere che composte insieme narrano di eventi accaduti, vite incontrate e luoghi conosciuti. La lingua dell’artista egiziano è sempre composta da una stratificazione di scritture: egli accumula e fa sedimentare sulla tela differenti memorie, che permettono all’opera di avere una propria temporalità interna.

Luoghi di reperti, 1994. Tempera, legno, sasso, corda su juta applicata su cartone, 60x70x8 cm. CSAC, Parma.

   Shafik ricerca il luogo arcaico, un luogo che abbia una storia antica: quelli che intende evocare sono luoghi fatati e silenziosi, ai quali si giunge attraverso viaggi nella memoria, nel passato di mondi mitici e pacati. Fra gli oggetti poi aggiunge colori e iscrizioni che ricordano la calligrafia dei bambini, ma anche i geroglifici, la scrittura araba e gli ideogrammi, che richiamano terre remote. Shafik vuole rappresentare la memoria, i ricordi di un tempo passato e indefinito, che può essere la sua infanzia in Egitto, ma non solo. Le sue opere sono sovrapposizioni del tempo e per comprenderle bisogna guardarle con l’occhio dell’archeologo, osservarne le diverse stratificazioni. Soprattutto i dipinti di questo ciclo rimandano, fin dai titoli, al lavoro di scavo, dal quale dissotterriamo immagini e figure, frasi e scritture, appartenenti a differenti mondi e culture, che l’artista ha unito nel quadro. Egli considera la sua opera come un’esperienza totale che coinvolge tutti i sensi, dilata il tempo, preleva dalla ripetitività della vita il fruitore facendolo entrare nel dipinto. Con Shafik si viene trasportati in una dimensione altra, più intima, più intensa, più raccolta.

   L’Oriente, così avvolto di fascino e mistero, suscita fin dall’antichità un forte interesse da parte degli occidentali. Il termine Oriente va inteso nell’accezione più ampia, comprendente non solo l’Asia, ma anche i paesi appartenenti al bacino del Mediterraneo, quali la Turchia e il Nordafrica. Un legame sempre presente quello fra le due culture che, attraverso i racconti di viaggio, ispira un senso di nostalgia per quelle terre lontane. Nel Novecento il rapporto con l’Oriente si fa sempre più forte, giungendo ad influenzare la pittura di molti artisti europei. Nelle opere di Shafik, Oriente e Occidente si amalgamano perfettamente in un mondo di poesia e di sogno.
Il titolo dell’opera Le porte d’Oriente evoca il passaggio dal mondo occidentale conosciuto all’ignoto mondo orientale, un’apertura verso qualcosa di misterioso ed affascinante, un invito all’avventura. Nel quadro vediamo due sagome di antichi battenti, poi scritte nere su campo bianco e intorno blu, marrone e terra di Siena, questi sono i colori, richiamo di terre assolate.
Shafik punta l’accento sul viaggio, l’importante è ciò che avviene durante il tragitto, egli vuole risvegliare l’attenzione del fruitore, il suo desiderio di conoscere e di sperimentare il nuovo. L’artista invita a lasciarsi andare, a vivere nuove esperienze, perché solo esse ci permettono di provare inedite emozioni: al di là della porta non troveremo ricchezze tangibili, ma la crescita del nostro essere. Con le sue opere intende rivelare una verità nascosta, che potremmo trovare all’ingresso della Porta.

Le porte d’Oriente, 1998. Tecnica mista su tela di juta, 151,5×153,5×5,5 cm. CSAC, Parma.

   Attraverso le svariate opere raffiguranti queste porte, accediamo al mondo originario dell’artista, alla sua storia, quell’Egitto mai palesato, ma sempre presente: la terra che lui ha lasciato compiendo il cammino inverso rispetto a quello che è chiesto a noi quando ci avviciniamo ai suoi lavori. Il percorso di Shafik è il medesimo che i mercanti compivano verso Occidente, carichi di merci preziose, avvolte nella juta, il materiale scelto per questo dipinto. Allo stesso modo l’artista porta con sé oggetti avvolti di mistero, diventando anch’egli mercante, viaggiatore, sciamano, incantatore.
Negli anni Duemila le opere di Medhat Shafik si fanno sempre più complesse, le tecniche utilizzate variano repentinamente e, anche quando parla un linguaggio pittorico, questo è sempre più rapportato a molteplici materiali.

Stanze segrete, 2006. Tecnica mista su carta a mano e legno antico, 260×100 cm. CSAC, Parma.
Stanze segrete, 2006. Tempera, incisioni e collage su legno antico, 253,5×98 cm. CSAC, Parma.

   Il dittico Stanze segrete datato 2006 presenta una base di legno antico che si mostra nella sua nudità nella parte sinistra, mentre nella parte destra è celato da una carta grezza. Ovunque il supporto presenta segni e intagli che, se da una parte sono offuscati dalla carta spessa, dall’altra si mostrano quasi fossero graffiti preistorici. E, se pensiamo all’Egitto di Shafik, non possiamo che vedere in quest’opera una stele egizia sulla quale si sono depositate le stratificazioni del tempo.

   Medhat Shafik non ha mai nascosto di aver letto Freud e diversi trattati di psicanalisi: queste suggestioni entrano nel suo lavoro, che diventa una sorta di autoanalisi attraverso la rievocazione del passato e l’utilizzo della memoria come strumento per creare aggregazioni inedite di pensieri ed immagini.
Il primo artista che si è spinto nei viluppi dell’inconscio – da poco indagato da Freud e Jung – è stato Paul Klee, per il quale l’arte era elaborazione autonoma della mente umana e per questo motivo non doveva riprodurre il visibile, ma rendeva visibile. Shafik in un’intervista individua la genialità dell’artista tedesco nell’invenzione di un lessico nuovo che ha liberato il mondo della rappresentazione. Paul Klee, nei primi anni del Novecento, per creare le sue opere, comincia ad osservare i disegni dei bambini, per l’energia vitale che gli trasmettevano e perché spinto dal clima culturale dell’epoca, che cominciava a riscoprire i primitivi e l’arte africana. L’attenzione per la semplicità della rappresentazione e per la raffigurazione simbolica lo porta, alla fine degli anni Trenta, a rapportarsi ai segni, agli “pseudo-grafemi”, che ricordano i geroglifici. Ed è qua che troviamo un altro rapporto con Medhat Shafik, con la sua terra e il suo sentire più profondo. Il desiderio di entrambi gli artisti è quello di penetrare il livello superficiale del mondo sensibile, per cogliere il segreto più profondo dell’essere.
Nell’epoca odierna, quella dell’ultramodernità, della velocità, dell’immediatezza, si perde il significato più profondo delle cose. L’umanità rischia di annullarsi e con essa l’antropologia. Secondo Shafik gli artisti, che da sempre vivono nell’utopia di poter cambiare il mondo, dovrebbero riacquistare la dimensione riflessiva per giungere ad un’arte che abbia un significato antropologico.

   Medhat Shafik, in un mondo così materialistico e cinico come il nostro, ci regala con le sue opere un viaggio verso terre lontane, dove il progresso non è ancora giunto e dove ancora si possono intraprendere avventure attraverso impervie dune di sabbia e mari burrascosi, o farsi inebriare dal profumo di colorate spezie, avvolte in sacchi di juta.
Il messaggio dell’artista porta sempre con sé una verità che va al di là delle apparenze: la sua pittura non vuole semplicemente essere bella, ma vera e profonda, in grado di trasmettere intime emozioni.

Eleonora Galli
Storica e critica d’arte per vocazione e professione.
Fotografa per passione.
Specializzata in arte contemporanea e nuovi media.
Amo perdermi nei musei e fotografare gli angoli nascosti delle città.