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È un palazzo normale quello di via Giorgio Jan, di quelli che, se non si punta il naso all’insù, non si noterebbe.

Invece è un signor palazzo, progettato dall’architetto Portaluppi negli anni ’30, di quelli con grandi vetrate, un ingresso prestigioso ed il pavimento di pietra, con una scala ariosa che si attorciglia fino all’ultimo piano.

Ma ci fermiamo al secondo, dove c’è una porta aperta e si entra, investiti di luce e colori in quell’appartamento luminoso e particolare, ed ecco che imponente, fiera e candida, appena varcata la soglia dell’ingresso c’è “La collana”, un busto acefalo di donna.

È Marieda l’autrice, appassionata d’arte e di ceramica, realizza opere che poi vende o che tiene per sé e che sistema proprio nella casa in cui ancora oggi l’opera è esposta, quella di Portaluppi, quella in cui vive con Antonio Boschi, un ingegnere che ha fatto una brillante carriera alla Pirelli e che ha sposato nel 1927.

Un matrimonio d’amore, di quelli che sopravvivono alla vedovanza, di quelli che si decidono da un giorno all’altro, di quelli che condividono le passioni, e loro hanno una passione che emerge tra tutte: l’arte.

 

Marieda ed Antonio a Bruxelles, 1930.

Occhi vispi, naso dritto, capelli corti, ondulati come di moda negli anni Trenta ed il sorriso sempre pronto, lui con i capelli spartiti di lato con la riga precisa, aria buffa e simpatica che si nasconde, quando li lascia crescere, sotto baffi ordinati e dritti.

Iniziano a collezionare per caso, passando di galleria d’arte in galleria d’arte, senza lasciarsi influenzare da consiglieri o intenditori.

Sono ricchi?

Sì e no, sicuramente stavano bene ma non erano così ricchi come si potrebbe pensare.  Guardando i quadri esposti si nota che alcuni hanno delle cornici molto semplici. Si dice che Antonio, accompagnato dal suo maggiordomo, andasse a comprare delle listarelle per poi farne le cornici al sabato pomeriggio. È segno di quanto fossero disposti a risparmiare su alcuni aspetti della loro vita per poter poi acquistare più tele.

Si interessavano d’arte, facevano parte di una borghesia illuminata che si appassionava anche di ceramica, musica, e che dimostra che non solo avevano la possibilità di circondarsi del Bello, ma anche che ne avevano la volontà, che se avessero avuto più soldi avrebbero continuato a comprare, e che se ne avessero avuti meno avrebbero comunque mantenuto quella linea.

Ed infatti continuano su quella linea, raccogliendo quasi tremila opere. Tante da rendere la casa di via Jan 15 un “museo abitato”, un luogo in cui sembrava che le opere avessero la meglio sulla vita quotidiana, in cui tele su tele su tele coprivano le pareti delle stanze, raccolte in schedari riposti negli sgabuzzini, sotto al letto, appoggiate a terra quando non vi era più spazio.

 

Gli arredi originari della casa Boschi Di Stefano. Il soggiorno.

Era una casa accogliente, vissuta, calda, dal grande salotto in cui regnava, e regna tutt’ora, il grande pianoforte a coda Bechstein, il protagonista delle serate musicali che i coniugi organizzavano.

Li si può immaginare, seduti comodamente sul divano attorniati da amici ed invitati, mentre il maestro suona il pianoforte, sorvegliato dagli sguardi dei protagonisti delle opere di Savinio, sopraffatti dalla statica lotta de “La scuola dei gladiatori” di De Chirico, vi sono anche le “Donne salutanti” di Campigli, affacciate ad una balaustra sono nel posto migliore per assistere allo spettacolo.

Sicuramente qualcuna tra gli ospiti di quelle serate musicali, sarà andata ad incipriarsi il naso e sarà rimasta ammaliata dalle composizioni di Rumney, che ancora oggi sovrastano imperiose, luminose, sgargianti la vasca da bagno e si riflettono nello specchio moltiplicandosi.

Ancora oggi sono lì, anche se la casa non è più come appariva un tempo.

I mobili non sono quelli dei Boschi Di Stefano, alcuni troppo rovinati, altri donati e lasciati in eredità ai parenti, sono stati sostituiti secondo criteri espositivi, hanno allestito gli ambienti mantenendo l’anima della casa, dell’ambiente familiare e caldo.

 

Casa-museo Boschi Di Stefano. Sala da pranzo, prima studio di Antonio Boschi.

Casa-museo Boschi Di Stefano. La camera degli ospiti.

Si pensa che i luoghi dell’arte siano i musei. Stanze asettiche, dai colori cupi o neutri che si susseguono in modo più o meno regolare, studiate per sottolineare le opere, per esaltarne la loro unicità.

Invece l’arte, quando è nata, era un arredo, un vezzo per chi poteva permetterselo.

Ed è così che l’arte può accompagnare la vita di tutti i giorni, decorare una sala da pranzo con un quadro di Fontana non appare fuori luogo, una statua di Arturo Martini in corridoio appare alla portata di tutti.

Luminosa ed accogliente, la casa di Antonio e Marieda mantiene lo spirito con cui era stata pensata. È una successione di stanza e di stili, di artisti, di generi.

I Boschi Di Stefano collezionano tutto ciò che attira la loro attenzione, senza predilezioni, senza pregiudizi, raccogliendo artisti già famosi e artisti in erba, che magari non sbocceranno mai. Spostandosi di genere in genere senza curarsi che non vi sia un filo conduttore, che vi sia unità ed omogeneità.

Ovunque lo sguardo si posi, si posa su qualcosa di nuovo, insolito, inaspettato, completamente diverso da ciò che ha accanto. Ed è questa disomogeneità che rende la collezione unica.

Ed ecco il fil rouge, quella sensazione di trovarsi in un luogo piacevole, familiare, nel quale si ha voglia di sedersi sul divano e sorseggiare un tè, quella sensazione di voler vivere circondati dall’arte, attorniati dal Bello.

“Ci piace vivere in una casa dove l’arte amplifichi il senso del nostro amore per la vita. È un posto molto eccitante per vivere e da condividere con gli amici”. 

Sofia Pettorelli