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     Renato Mambor è stato uno dei protagonisti della cultura figurativa italiana della seconda metà del Novecento: classe 1936, si affaccia al mondo dell’arte attraverso il cinema per il quale crea grafiche e manifesti e attraverso cui ha modo di interessarsi alla dimensione teatrale e attoriale, recitando anche in alcuni film. Nasce, vive e lavora a Roma, città estremamente florida e dinamica dal punto di vista culturale, prendendo parte al rinnovamento delle arti visive che si è sviluppato negli anni Sessanta e Settanta. Sono gli anni dell’Arte Povera, dell’Arte Concettuale, della Pop Art, un periodo fortemente dinamico e rivoluzionario per la ricerca visuale. Mambor comincia a dipingere alla fine degli anni Cinquanta, divenendo compagno di strada di coloro che insieme a lui hanno rinnovato il linguaggio artistico: Schifano, Festa, Angeli, Fioroni, il gruppo a cui è stato dato il nome di Scuola di Piazza del Popolo, anche se non si trattava di una vera e propria scuola. Il nome del movimento prende ispirazione dalla zona in cui gravitavano, dove aveva sede la galleria La Tartaruga, spazio eletto da artisti, letterati, critici, galleristi e intellettuali provenienti da tutto il mondo, come luogo di scambio di idee.

     La ricerca di Mambor è figlia dello spirito del tempo e del clima culturale di quegli anni, ma contemporaneamente riesce ad essere estremamente personale e capace di tradurre una propria visione del mondo. Fin dal principio l’artista è interessato alla riproduzione dell’immagine: nei primi anni Sessanta utilizza sagome, segnali stradali, ricalchi, timbri, rulli per creare forme piatte bidimensionali, totalmente spersonalizzate. La sua indagine si sviluppa a partire dall’oggetto ordinario, di cui Mambor si appropria per studiarlo ed elevarlo al ruolo di soggetto. Nelle prime opere, i Timbri, si serve proprio di oggetti quotidiani – semplici mollette da bucato – per realizzare immagini che annullano il ruolo dell’artista come creatore unico e insostituibile. L’obiettivo che si propongono gli artisti dell’epoca è quello di “togliere l’io dal quadro”, ovvero fare un passo indietro, sottrarsi come soggetti e indicare solamente la realtà allo spettatore, dandogli in questo modo piena libertà e autonomia di visione e pensiero.

     Nei primi anni Sessanta Mambor comincia a sviluppare il tema fondamentale della sua ricerca d’artista, ovvero l’immagine dell’uomo. In Uomo statistico e Uomini Statistici la figura umana è spersonalizzata, ridotta a sagoma, frutto perverso della società dei consumi che annulla l’individualità a favore della serialità. Fin da queste prime prove emerge la volontà dell’artista di sottrarre all’arte la funzione narrativa e la vocazione naturalistica, per conseguire invece una visione il più possibile anonima del reale.

     Nel 1966 si stabilisce per un periodo in America per conoscere la Pop Art di cui non condivide le rumorose immagini colorate: al ritorno la sua ricerca si fa più concettuale, estendendosi anche alla fotografia e alla performance. Mambor si accorge che non è più possibile ritrarre il soggetto, per questo motivo si dedica all’azione, al gesto, unico segno tangibile dell’esistenza dell’uomo. Da quest’idea nascono opere come Ricalchi, Cubi mobili, Filtri, in cui si assiste a una smaterializzazione della realtà: l’oggetto viene decontestualizzato e il soggetto spersonalizzato. L’attenzione viene posta sull’azione in quanto traccia lasciata nel mondo dall’uomo. Le figure umane disegnate da Mambor non hanno mai un volto, egli non è interessato all’espressione, all’individualità, ma all’agire dell’uomo. Culmine di questa ricerca sono le opere intitolate Itinerari del 1968, in cui l’artista traccia dei percorsi servendosi di rulli di gomma, eliminando in questo modo l’atto di dipingere, così come quello di raffigurare qualcosa, riducendo entrambi a puro automatismo.

     Nel 1969, con Azioni fotografate, Mambor diviene il protagonista dell’opera rimanendone però sostanzialmente uno spettatore: utilizza il proprio corpo per mettere in scena azioni e situazioni, spesso dolorose e pericolose, che vengono poi fotografate, al fine di restituire uno stato d’animo interiore, psichico ed emozionale. Con questi lavori comincia ad intrecciare un legame con chi guarda l’opera d’arte, un rapporto che andrà intensificandosi sempre di più nel corso degli anni.
L’attenzione al reale, alle cose particolari, alla messa in scena degli oggetti, porta l’artista all’ideazione di Evidenziatore, realizzato nel 1970 in collaborazione con l’architetto Paolo Sgabello. Si tratta di una sorta di ragno di metallo, una mano meccanica che afferra gli oggetti, un marcatore che fa propria la realtà lasciandola però nel suo contesto. Attraverso questa operazione Mambor invita all’osservazione, accompagna lo sguardo dello spettatore, il quale in questo modo non è più passivo, ma è anch’egli implicato nell’azione.

     La dimensione performativa si fa sempre più profonda nel 1975 con la creazione di Trousse, una scultura che ricorda una gabbia di metallo, entro la quale inserisce inizialmente degli oggetti, e poi l’uomo. Il soggetto, posto in questo modo sotto i riflettori, diventa attore, prendendo coscienza del proprio ruolo nella vita. Parallelamente a questo progetto, fonda il Gruppo Trousse, una compagnia teatrale che svolgerà un’attività fortemente sperimentale nei teatri, nelle gallerie d’arte e in ogni luogo propizio alla diffusione della loro ricerca culturale. L’esperienza teatrale è fondamentale per Mambor, permette all’artista di sondare il tema dell’individualità, delle relazioni fra i diversi soggetti che partecipano all’azione e allo stesso tempo con il pubblico, che diventa attivo e parte dell’operazione. Dal 1978 al 1987 abbandona l’arte visiva per dedicarsi quasi completamente a quella teatrale, realizzando, col supporto della compagna Patrizia Speciale, spettacoli, laboratori, rassegne, performance, filmati. Nel 1983 comincia a sviluppare a teatro uno dei cardini della sua ricerca, il tema dell’osservatore, che l’anno successivo tradurrà in pittura: la sagoma dell’artista dà le spalle allo spettatore e lo invita a porre l’attenzione sull’azione del guardare. L’Osservatore è colui che contempla, che fa proprio ciò che il suo sguardo cattura, ma allo stesso tempo viene posseduto da chi lo osserva. Mambor scardina in questo modo l’idea che i soggetti siano disgiunti, supponendo invece che gli uni siano legati agli altri per il fatto stesso di vivere in relazione, in uno scambio continuo di sguardi.

     Nel 1987, in seguito a un intervento al cuore che lascerà un segno anche nella sua arte, ritorna definitivamente alla pittura, approfondendo ed espandendo il tema dell’osservatore. La sagoma stilizzata, memoria delle opere degli anni Sessanta, entra nei dipinti personificando di volta in volta l’artista, lo spettatore, l’altro e implicando azioni che si rivolgono verso l’esterno. Dal 1993 al 1996 l’opera supera i confini del quadro: Riflettore, Il Viaggiatore, Il Pensatore, Il Decretatore, sono esempi di come l’azione venga messa in scena al di fuori della cornice del dipinto: le sagome entrano in relazione con oggetti che sono posti esternamente. Il dualismo è alla base del lavoro di Renato Mambor: dentro e fuori non sono concetti opposti, ma sono entrambi facenti parte di un tutto, entrambi indispensabili affinché lo spettatore possa entrare nel quadro e comprendere se stesso. Egli non vuole essere il protagonista dell’opera, anzi se ne allontana, permettendo al pubblico di agire dentro e fuori da essa. Il fine ultimo dell’arte secondo Mambor è quello di attivare un’energia, una scossa che scorra fra l’opera, il creatore e lo spettatore, e che produca armonia fra tutti i soggetti implicati nell’azione. Negli anni successivi approfondisce questi temi, rompendo definitivamente la barriera del quadro, con la creazione di sagome tridimensionali: i personaggi escono dalle tele, divenendo parte dell’ambiente, alla pari dell’uomo.

     Nelle opere degli anni Duemila Mambor sonda il rapporto fra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, talvolta lo fa mostrando la scissione fra i due (Separé, 2007), talaltra auspicando la riconciliazione fra gli esseri umani e la natura, come accade in Raccoglitori di pioggia del 2011. In quest’ultima l’artista riflette anche sul concetto di trasformazione inesorabile e continua degli elementi, sul ciclo della vita, nel quale l’uomo è inserito e di cui è figlio, ponendo lo spettatore davanti a una riflessione su se stesso e sul suo rapporto con il creato. Una costante del pensiero di Mambor, sostenuta fino alla morte avvenuta nel 2014, è stata proprio questa: la volontà di trasmettere l’importanza della capacità di ascolto, dell’altro, dell’ambiente, del mondo, indispensabile per stabilire relazioni, a tutti i livelli.

Eleonora Galli
Storica e critica d’arte per vocazione e professione.
Fotografa per passione.
Specializzata in arte contemporanea e nuovi media.
Amo perdermi nei musei e fotografare gli angoli nascosti delle città.