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Un dialogo romantico, quasi amoroso, quello di Luigi Magnani con i capolavori della Fondazione Magnani-Rocca. Vittorio Sgarbi svela il carattere estremamente sensibile e riflessivo del grande collezionista partendo da due opere straordinarie: la Melencolia di Dürer e il Dottor Faust di Rembrandt.

Carl Gustav Carus vedeva nella Melencolia di Dürer una prefigurazione del Dottor Faust. L’angelo dal volto scuro, il genio alato, erano per Carus inquiete immagini di una ricerca continua e sempre insoddisfatta. Nessun artista prima di Dürer aveva espresso così allusivamente e così efficacemente uno della coscienza, una condizione dell’anima, una tensione inguaribilmente romantica. Più di un secolo dopo Rembrandt trasformò l’immagine femminile della melanconia in quella di un filosofo che si alza dal tavolo improvvisamente attratto da una luce, da un’apparizione; e anche in quel filosofo gli interpreti del Settecento e dell’Ottocento avrebbero con insistenza voluto riconoscere Faust.

Laszlo Vinkler, Ritratto di Luigi Magnani, 1936, olio su tela

Non è casuale, quindi, che le incisioni dei due grandissimi artisti facciano parte della raccolta che Luigi Magnani ha disposto, negli anni, intorno a sé, e poi costituito in Fondazione, aggiungendo a quello paterno il nome della madre, quasi per allontanare il pensiero di un troppo personale possesso di opere che non appartengono che a se stesse e all’umanità intera: Fondazione Magnani-Rocca.

“Per Magnani avere i quadri è stato un atto amoroso, come di chi vuol dare anima e fiato alle cose nel supremo desiderio di trasformare le opere in persone.”

Ma la presenza delle due incisioni non corrisponde soltanto alla volontà di testimoniare, con due capolavori, alcuni degli aspetti più profondi del pensiero moderno espresso in immagini, ma alla volontà di indicare per simboli i termini di una scelta, il carattere stesso di quella che si conviene impropriamente di chiamare ‘collezione’. Luigi Magnani è soprattutto uno studioso, un uomo di singolare sensibilità e di quasi imperscrutabile cultura; di fronte alla sempre misteriosa vastità del sapere si è trovato perduto e sconfortato come la Melencolia düreriana, cui neppure il soccorso delle ali poteva bastare a vedere la strada certa della conoscenza; e si è trovato come il ‘filosofo’ di Rembrandt, improvvisamente folgorato, dopo lunghissime meditazioni, da una luce; questa luce sono state per lui, in tempi diversi, ma in un solo tempo interiore, le parole di Chateaubriand, di Stendhal o di Proust, le note di Beethoven, di Schumann o di Chopin, alle quali si è lungamente accostato, ma che ancora nascondono il loro mistero.

In quella stessa luce ha voluto vedere anche le opere d’arte e gli è sembrato di doverle portare il più possibile vicino a sé per poterle toccare, farle entrare nella propria vita, non come oggetti, ma come persone vive, familiari. Così quella che ora si può ritenere una delle più grandi raccolte private d’Europa è anche, nel contempo, un faustiano, forse sovrumano, tentativo di dare anima e vita anche oltre il pensiero, consustanziato alle immagini, a oggetti bellissimi, ma condannati all’impersonale destino dei musei, troppo equanimi; o all’equivoca rappresentazione di valori religiosi; o all’egoistico e strumentale possesso dei potenti.

Per Magnani avere i quadri è stato un atto amoroso, come di chi vuol dare anima e fiato alle cose nel supremo desiderio di trasformare le opere in persone, in un dialogo e vivo con gli artisti, tanto più intenso quanto più esclusivo, e nondimeno cercato per il comune, universale beneficio; così volta a volta sono entrate nelle stanze di casa Magnani le opere di Dürer, Tiziano, Ghirlandaio, Filippo Lippi, del Maestro di Figline, di Tiepolo, Beccafumi, dell’Ortolano, di Mazzolino, Gentile da Fabriano, Pietro di Giovanni Ambrosi, Carpaccio, Van Dyck, Giovanni del Biondo, Rubens, Pietro Orioli, Rembrandt, Mello da Gubbio, Schongauer, Pittoni, Bartolini; e anche, con i loro sogni, incubi e intimi segreti, di Füssli e di Goya, come ospiti che dovessero finalmente parlare, raccontare una storia che andava anche oltre la loro sempre sicura e nobilissima provenienza, ricevuti e accolti non solo con onori e neppure soltanto con amore, ma in attesa quasi che parlassero in un convegno spirituale cui egli stesso, Magnani, con tutta l’umiltà possibile, era invitato a partecipare. Dapprima in un dialogo e poi in un coro, in un sublime concerto non diverso da quello delle anime nel Paradiso dantesco, contente del luogo a loro destinato, beate anche “in la spera più tarda”. Nella contemplazione di quella stessa luce che Magnani aveva sempre davanti e che era ed è ancora quella del filosofo di Rembrandt.

Tratto dal saggio “La malincolia alata di Luigi Magnani”  presente nel Catalogo della Fondazione Magnani Rocca (già pubblicato in “FMR”, n.28, novembre 1984, Milano, Franco maria Ricci editore).