1600
cm 73,5 x 59,5
XVII secolo, Scuola romana
Bottega di Giovanni Francesco Romanelli, detto il Viterbese (Viterbo, 1610 c.a. –1662)
L’idolatria di Salomone
Olio su tela, cm 73,5 x 59,5
L’episodio biblico di Salomone che adora gli idoli è uno dei passaggi più tristi e sorprendenti delle Scritture, narrato nel Primo Libro dei Re, capitolo 11. Salomone, il re famoso per la sua saggezza e per aver costruito il magnifico Tempio di Gerusalemme dedicato a Dio, cade in un’apostasia che macchia la sua reputazione e porta a gravi conseguenze per il regno di Israele. Il problema di Salomone iniziò con le sue numerose mogli straniere. Nonostante la Legge di Dio avesse vietato agli Israeliti di sposare donne di popoli pagani per evitare che il loro cuore si allontanasse dal Signore, Salomone prese ben settecento principesse e trecento concubine da Moab, Ammon, Edom, Sidone, e Ittita. Queste donne, per la maggior parte, provenivano da culture che adoravano divinità diverse dal Dio d’Israele. Con l’avanzare dell’età, e sotto l’influenza delle sue mogli, il cuore di Salomone cominciò a deviare. Esse lo spinsero a seguire le loro divinità, e così Salomone, che in gioventù aveva dimostrato una profonda devozione, finì per adorare idoli abominevoli. Tra le divinità che Salomone iniziò a venerare vi furono Astarte, la dea dei Sidoni; Milcom, la divinità degli Ammoniti; Chemos, l’abominio dei Moabiti; e Moloc, l’idolo a cui si offrivano sacrifici umani.
Per compiacere le sue mogli, Salomone non solo tollerò l’idolatria, ma arrivò a costruire “alti luoghi” – ovvero santuari pagani – su un monte di fronte a Gerusalemme, dedicati a queste divinità straniere. In questi luoghi, le sue donne offrivano incenso e sacrifici ai loro dèi, e lo stesso Salomone partecipava a queste pratiche, allontanandosi dal patto che aveva stretto con il Signore. L’apostasia di Salomone fu un grave affronto a Dio, che gli si era manifestato due volte, dandogli precisi ordini di non seguire altri dèi. L’indignazione divina non tardò a manifestarsi. Il Signore annunciò a Salomone che, a causa della sua disubbidienza e del suo allontanamento dal patto, gli avrebbe strappato il regno. Tuttavia, per amore di Davide, suo padre, e per amore di Gerusalemme, la città scelta da Dio, questa punizione non sarebbe avvenuta durante la vita di Salomone, ma si sarebbe realizzata sotto il regno di suo figlio, al quale sarebbe stata lasciata solo una tribù. L’episodio di Salomone che adora gli idoli serve da monito biblico sulla vulnerabilità umana alla tentazione, anche per chi è stato dotato di grande saggezza e benedizioni divine. Mostra come l’orgoglio, il lusso e le compromissioni spirituali possano portare anche i più grandi a cadere, e come le scelte personali abbiano conseguenze che si ripercuotono su intere generazioni e sul destino di una nazione.
Il dipinto, dalla stesura pittorica agile e sciolta, dalle tinte pastellate e dalla pennellata fluida, presenta varie caratteristiche che lo associano alla produzione della scuola romana del Seicento, ed, in particolare all’operato dei membri della cerchia cortonesca: l’opera qui analizzata presenta infatti varie analogie, sia a livello tematico sia per quanto concerne la dimensione tecnico-esecutiva, con un dipinto del pistoiese attivo prevalentemente in ambito romano Lazzaro Baldi (Pistoia, 1624 circa – Roma, 1703), L’idolatria di Salomone, citato, tra gli altri, da Padre Sebastiano Resta e attualmente parte delle collezioni della Galleria Spada (inv. 274). A livello tecnico-esecutivo il nostro dipinto mostra delle chiare analogie con la produzione pittorica di un altro artista della cerchia di Pietro da Cortona, Giovanni Francesco Romanelli, detto il Viterbese o il Raffaellino (Viterbo, 1610 circa– Viterbo, 1662). Romanelli è stato uno dei protagonisti del Seicento romano, allievo di Pietro da Cortona e figura chiave nel passaggio tra la fase più esuberante del Barocco e un’espressione più classicista. Il suo stile, pur radicato nella prolifica tradizione del Barocco romano, si distingue per alcune peculiarità che lo rendono riconoscibile: l’interpretazione in termini di maggior classicismo della dottrina di Pietro da Cortona, la caratterizzazione, in termini di particolare grazia e delicatezza, delle figure femminili presenti nelle composizioni, la marcata leggibilità degli episodi eletti, e un rimando alla cultura francese, legato alla sua permanenza a Parigi. Lo stile di Giovanni Francesco Romanelli può essere quindi descritto alla stregua di Barocco classicizzante, caratterizzato da eleganza, grazia, composizioni chiare e una raffinata padronanza del colore. Le sue opere sono un ponte tra l’esuberanza del primo Barocco romano e le tendenze più contenute e classiciste che avrebbero influenzato il XVIII secolo.

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