XVII secolo
74 x 64 cm
Giovanni Giacomo Sementi (Bologna, 1580 – 1636)
Sibilla
Olio su tela, cm 74 x 64
Con cornice, cm 93 x 84,5
Comunicazione orale Prof. Massimo Pulini
Bibliografia: Armanda Pellicciari, Giovan Giacomo Sementi, allievo di Guido Reni, in Bollettino d’Arte, 1984, pp. 25-40. M. Francucci, Giovanni Giacomo Sementi tra Bologna e Roma, in Paragone arte, 787-789, 2015, pp. 21-35. M. Pulini, Frammenti di una monografia: parte prima. Le metamorfosi di Gian Giacomo Sementi tra indipendenza e servizio, tra Caravaggio e Reni, in About Art on line, giugno 2019, ad vocem. M. Pulini, Gian Giacomo Sementi. Porzia, in Quaderni del Barocco, Museo di Ariccia 2021, ad vocem.
La tela in esame, di chiara matrice emiliana, è stata ricondotta dal professore Massimo Pulini alla mano dell’artista bolognese Giovanni Giacomo Sementi (Bologna, 1580 – 1636), sulla base del confronto col medesimo soggetto appartenente alla collezione Zanasi di Modena, precedentemente riferito alla più generica scuola di Guido Reni. Figlio di Vincenzo Sementi, la sua formazione professionale si svolse principalmente a Bologna nelle botteghe del fiammingo Denys Calvaert e del celebre Guido Reni, che accompagnò a Roma durante il soggiorno tra il 1609 e il 1612 e con cui avviò una prolifica collaborazione artistica che portò alla realizzazione di opere di destinazione pubblica e chiesastica: risalgono a questo periodo fortemente improntato sulla lezione caravaggesca appresa dal maestro il Martirio di Sant’Orsola, nella Basilica di San Martino ed il Martirio di Sant’Eugenia, presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna. Nel 1615-20 collaborò con Francesco Gessi e Bartolomeo Marescotti sotto la direzione di Reni, che fornì i disegni preparatori, agli affreschi della cappella del Sacramento nel duomo di Ravenna, commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini, partecipando alla decorazione della cupola, dei pennacchi e dei pilastri. L’anno successivo Sementi si recò a Napoli con il maestro e Gessi per lavorare alla cappella del Tesoro nel Duomo, progetto che fallì a causa dell’opposizione degli artisti locali, come documentato da Carlo Cesare Malvasia nella sua opera Felsina pittrice (1678, 1841, pp. 246 s.). Dal 1624, invece, venne documentato al servizio del cardinale Maurizio di Savoia, che lo spinse a trasferirsi a Roma nel 1626, dove prese parte alla congregazione generale dell’Accademia di San Luca. Ricordato come uno dei principali pittori del suo tempo da Giovanni Baglione nel suo Le vite de’ pittori, scultori et architetti, morì a Bologna nel 1636.
Nel corso della sua carriera Sementi assorbì appieno la lezione di Guido Reni, la cui pittura si contraddistingueva per grazia, eleganza compositiva, uso sapiente del colore e, soprattutto, capacità di infondere nelle figure un’aura di profonda spiritualità e malinconia, sviluppando però un tratto artistico che acquisì una propria individualità e autonomia: si evince questa propensione guardando, ad esempio la pala raffigurante la Madonna col Bambino in trono e i santi Giuseppe, Francesco e Santo vescovo di Poggio Mirteto, nella quale giunse ad una raffinata sintesi tenebrosa che, nel corso stilistico degli ultimi anni di vita, lo vide dialogare alla pari con il Lanfranco. All’aprirsi del Seicento, parallelamente ad un cambio di gusto in direzione classicista, si assistette anche alla trasformazione dell’iconografia della Sibilla, che da anziana, saggia e severa, speculare femminile delle figure di vecchi profeti, iniziò invece ad essere interpretata come giovane affascinante. Molto vicina concettualmente alla Sibilla qui presentata, oltre alla già citata in collezione modenese che riprende l’attributo del libro, si segnala Il suicidio di Porzia a mezza figura della collezione Durazzo Pallavicini di Genova: in entrambi i casi la protagonista viene effigiata nella classica posa evocativa di tante sante dagli occhi rivolti al cielo suggerendo una visione ultraterrena o una profonda meditazione, richiamando, attraverso l’ingombro del busto ed il livido incarnato, anche certi esempi lombardi, dal Morazzone al Cairo.
In questa tela emerge la capacità dell’artista di evocare un senso di trascendenza pur mantenendo una forte presenza fisica. La delicatezza dei tratti del viso, la morbidezza dei capelli acconciati e la ricchezza dei panneggi contribuiscono a creare un’immagine di straordinaria raffinatezza, infondendo un’aura di solenne dignità e un pathos tipicamente reniano, che la rende profondamente umane e al tempo stesso quasi divina.

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