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Francesco Bonami è il più imprevisto esempio di mutazione genetica che riguarda la figura di curatore e critico d’arte. Fiorentino, classe 1955, un’ambizione giovanile da pittore messa presto da parte e mai sopita del tutto, lascia l’Italia e va a New York, gavetta da corrispondente USA per Flash Art, all’inizio degli anni ’90 la sua carriera da curatore s’impenna e nel giro di poco s’impone sul palcoscenico internazionale.

Direttore artistico della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Senior Curator al museo di Chicago, nel 2003 dirige la Biennale di Venezia, nel 2010 la Biennale del Whitney (primo italiano nella storia), cura mostre nei musei di tutto il mondo, temutissimo e irraggiungibile per i comuni mortali. Difficile pretendere di più.

I tempi però cambiano e chi è intelligente capisce al volo quando è ora di «swicciare» altrove. Pur dovendo tenere la parte di critico super cool, Bonami non ha mai perso lo spirito caustico e dissacrante dei fiorentini, e habitué di casa Pinault o dagli sceicchi arabi, si è sempre divertito con le polemiche di casa, ponendosi un obiettivo che alla più parte dei suoi colleghi inorridisce: diventare popolare utilizzando i mezzi orizzontali, prima la tv, ora i social. Per parlare d’arte, certo, ma soprattutto per imporre il proprio inimitabile personaggio, una via di mezzo tra la comicità nonsense di Buster Keaton e quella più caustica alla Lenny Bruce, che in fondo l’arte cos’è se non un cabaret?

Il suo profilo Instagram è tra i più esilaranti, con oltre 6mila follower. Video di pochi secondi, selfie in close up, barba e capelli bianchi, occhiali da sole, ci spiazza presentandosi come «childish bonamino», un Bonami in formato infantile che dice la verità sull’arte, che si lamenta di aver perso il caricabatteria del telefonino, che arrivato in Russia si accorge di aver trovato uno dei monumenti più brutti di tutti i tempi, performando rapidi sketches come un Tino Sehgal ma molto più simpatico. Campo d’azione non un museo ma i social dove in molti, troppi, si limitando a «occupare degli spazi», postando foto delle loro opere, avvertendo gli amici delle loro mostre o degli articoli che parlano di loro, mettendo su eventi tipo sagra della bruschetta di cui non frega niente a nessuno. Altra cosa è, invece, capire come funzionano questi nuovi strumenti e reinventarsi: perché tutto è cambiato e rimanere se stessi può non bastare più. Se poi a capirlo è un signore ultra sessantenne con pedigree di razza, significa che esiste un mondo oltre Chiara Ferragni. Rispetto al suo amico e collega Hans Ulrich Obrist, intervistatore compulsivo che dalla carta passa oggi a Instagram, «thebonamist» sta diventando un oggetto immateriale di culto, impreziosito da disegni e vignette autografe, molto meglio di ciò che puoi trovare in galleria o nelle fiere. E non è il solo: Jerry Saltz, che ha vinto il Pulitzer per la critica d’arte parlando di sé come artista fallito, è attivissimo sui social media, 340mila followers su Instagram, dove spazia «dalla politica al sesso, all’autocompiacimento, all’autocommiserazione, alle politiche moraliste sul sistema dell’arte».

Non che Bonami abbia smesso di curare mostre né di scrivere libri, anzi. In questi giorni è uscito Post. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità sociale (Feltrinelli): un testo veloce e divertente, sulla falsariga dei precedenti Si crede Picasso o L’arte nel cesso, anche se stavolta la copertina è bruttissima, l’ennesimo morphing sulla povera Gioconda che ormai è anche peggio di Banksy. La scrittura, peraltro, risulta funzionale alla bassissima soglia di attenzione che il pubblico rivolge non solo alle dissertazioni intellettuali ma anche al tempo di lettura per cui i «poveri» giornali di carta sono costretti ad avvisare che non ci vorrà più di un minuto.

Il Bonami è come l’Andy Warhol di ieri. Tra una recensione su Artforum e la richiesta di un selfie non ha dubbi. Chi si ostina a considerare l’arte una disciplina accademica, un territorio elitario, è completamente fuori dal tempo e il tempo non avrà pietà di lui. Ciò non significa che non si possa continuare a parlare di Carsten Holler o di Anish Kapoor, di Ai Weiwei o di Urs Fischer. Il linguaggio, però, è del tutto diverso e forse alla fine resta di più il Post di Bonami che un saggio di Rosalind Krauss. Prima che ci pensi qualcun altro, la responsabilità di uccidere la critica d’arte se la prende proprio lui, Francesco Bonami.